Biografia
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Anni di attività
1993 – oggi (32 anni)
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Luogo di fondazione
New York, New York, Stati Uniti
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Componenti
- Amedeo Pace
- Kazu Makino (1993 – oggi)
- Maki Takahashi (1993 – 1993)
- Simone Pace
- Toko Yasuda (1993 – 1993)
I Blonde Redhead sono un gruppo indie rock americano, inizialmente formato da Maki Takahashi, Kazu Makino e dai gemelli italiani Simone Pace e Amedeo Pace, entrambi nati a Milano.
La band prende il nome da una canzone dei DNA, band no wave di New York, attiva tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80.
I Blonde Redhead catturano l'attenzione di Steve Shelley, batterista della band noise rock Sonic Youth, che, nel 1993, produce il loro primo, omonimo album. Subito dopo la pubblicazione dell'album, Maki Takahashi lascia la band e gli altri componenti continuano la carriera come trio. Il bassista degli Unwound, Vern Rumsey, si unisce alla band per la registrazione del terzo disco, Fake Can Be Just As Good.
Il loro quarto album, In an Expression of the Inexpressible, viene prodotto da Guy Picciotto, cantante e chitarrista dei Fugazi, che conribuisce all'album cantando nel pezzo "Futurism vs. Passeism Part 2". Lo stesso Guy Picciotto ha poi prodotto anche gli ultimi due dischi della band, Melody of Certain Damaged Lemons e Misery is a Butterfly.
I Blonde Redhead hanno progressivamente accresciuto la loro popolarità all'interno della scena musicale underground. Sebbene la musica degli esordi venisse spesso ritenuta troppo simile a quella dei Sonic Youth, i Blonde Redhead sono riusciti, nel tempo, a creare un loro stile personale ed efficace. Kazu Mankino è nota per la sua voce acuta e intensa, con la quale canta su eleganti riff di chitarra e complesse costruzioni ritmiche.
Il lungo periodo di tempo intercorso tra la pubblicazione di Melody of Certain Damaged Lemons e Misery is a Butterfly è dovuto al prolungato ricovero di Kazu Mankino dopo una caduta da cavallo della cantante della band. All'interno di Misery is a Butterfly sia i testi (con un brano intitolato Equus), sia la parte grafica (con molteplici riferimenti a figure equestri), ricordano l'incidente. Tra i ringraziamenti la cantante ringrazia il suo dottore e gli amici che l'hanno aiutata durante la convalescenza.
La prima cosa che si percepisce nel nuovo disco dei Blonde Redhead è la stabilità. Come se con questo 23 si fosse giunti infine a un discorso più piano, come se le evoluzioni stilistiche a cui la band ci ha abituati dovessero portare necessariamente a questo punto. Come se i tre avessero trovato una cifra in qualche modo definitiva - proiettata peraltro verso le grandi platee. Non solo perché l’album conduce a una codificazione più precisa delle tendenze sviluppate nel precedente, bellissimo Misery Is A Butterfly, che portò Kazu Makino e i gemelli Pace su sonorità decadenti europee, tra new wave e l’amato Gainsbourg. Ma anche perché laddove la svolta spiazzava - prima c’era stato il noise, e poi anche l’art pop fantasioso di Melody Of Certain Damaged Lemons - qui il senso di stabilità si traduce a volte in prevedibilità.
Si capisce in quale direzione andrà il disco a partire dalla title-track, così spaziosa e decadente, con la base ritmica incalzante, la chitarra shoegaze molto My Bloody Valentine e la voce di Kazu che si muove nel solco già noto - languido e infranto, con quel misto di candore e sensualità che la rende sempre così tremendamente affascinante. Come nel respiro rotto che affiora in The Dress, nel suo abito sonoro di synth ed effetti atmosferici che rimanda a quegli anni Ottanta che sono, peraltro, attualissimi.
Pur in assenza di sorprese, 23 è un buon disco. Ben scritto e prodotto, con qualche pezzo molto catchy come Silently, e qualche debolezza che affiora, specie sul finale. Mediata però da pezzi formidabili come Publisher, aperta da synth e pianoforte cui seguono cambi di ritmo e rintocchi di chitarra, con un ritornello scioglilingua incredibilmente azzeccato, come la title-track, SW e Spring And By Summer Fall - in cui la ritmica si fa più tirata, meno disposta a indugiare sulla contemplazione inerte della tristezza e dello spleen, e si fonde magicamente con quella malinconia che, nel bene e nel male, è sempre stata impressa nel suono della band.
Tutto l’album è comunque percorso da un maggiore dinamismo, da una precisione che è calibrata al millimetro, con contorni netti - dei suoni, di ciò che i Blonde Redhead vogliono essere, oggi - e con un’identità musicale che si è fatta più chiara, accessibile, improntata in primo luogo alla scrittura di canzoni. Pazienza se poi il disco è solo un buon disco, di quelli che non fanno trepidare, che non sconquassano ma confermano la statura (alta) di una band.
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